Ferve in queste ore l’attività dei gruppi di docenti universitari: c’è chi si affanna a proporre la formazione di partiti e partitini utili, alla fine, solo per avere un posto in Parlamento, più che per contrastare la barbarie democratica in atto; c’è chi fa i salti mortali per trovare quale sia il miglior avvocato à la page cui affidare inutili ricorsi e ricorsini, magari da proporre in cordata, contro il decreto che impone il super Green Pass per accedere agli Atenei (e nelle liste veicolate dalle insopportabili chat universitarie – di un livello forse addirittura inferiore a quelle che le mammine attivano per la scuola, per il calcio, per il nuoto e per il catechismo – mancano solo, a meno che non mi siano sfuggiti, gli avvocati Taormina, Ghedini e Bongiorno); e c’è chi litiga, anche tra gli avvocati stessi – alcuni dei quali degli “arièccolo” in pensione da anni – su quale sia la formula migliore per assistere gli illustri professoroni in questa delicata fase della loro altissima lotta per la civiltà (diffida ai “Magnifici” Rettori, ricorso al TAR, denuncia alla Procura della Repubblica, esposto alla Corte Penale Internazionale, ricorso alla Corte europea, segnalazione all’ONU, diffida + ricorso, esposto + denuncia, diffida macchiata calda, ricorso moccaccino, denuncia shakerata…).
E mentre tutta questa febbrile attività scuote fin dalle fondamenta la Comunità accademica, alcune domande sorgono spontanee.
Che fine ha fatto l’autorevolezza accademica? Come mai i professori preferiscono delegare azioni senza compiere prima azioni in prima persona? Come è possibile che anche chi ha insegnato per decenni l’evoluzione dei paradigmi del potere politico e le forme di disobbedienza civile ad essi associate ora non pensi a questa risorsa come prima risposta concreta? Perché risulta più facile contestare una legge ingiusta avviando una diffida o un ricorso invece che disobbedendo? E, soprattutto, come si spiegherà agli studenti discriminati che restano fuori dalle aule la strategia e la coerenza della propria azione?
Dopo che è stata affossata (tra l’altro, guarda caso, da parte di molti degli stessi avvocati che ora si rimboccano solertemente le maniche) l’unica azione democraticamente concreta per spazzare via le norme sul Green Pass, vale a dire l’iniziativa referendaria, la via privilegiata per contrastare il dispositivo di soggiogamento resta a mio parere quella della disobbedienza civile. Si sarebbe rivelata qualcosa di dirompente se fosse stata attuata da un numero decente di persone (non, come attualmente accade, da 2 docenti universitari su 70.000). Non avvierò mai alcuna azione legale contro la mia università, che da cinque mesi mi ha sospeso dal lavoro e dallo stipendio. Continuerò a subire l’ingiustizia per renderla costantemente visibile. Vivere di stenti ha un valore illuminante e procura lucidità.
Tutto il resto non è, purtroppo, che un’imitazione inconsapevole del meccanismo che si sta contestando. Ed è, in fondo, un tentativo ulteriore, paludato sotto questo o quello slogan, per continuare a esserne parte.