Molti mi segnalano sbigottiti che la società di uno dei soliti miliardari da strapazzo è stata ufficialmente autorizzata a sperimentare in vivo il Brain-Computer Interface (BCI), ossia a impiantare nel cervello di qualche povero disgraziato un bel chip che consenta al disgraziato medesimo di interagire direttamente con un computer.
Ovviamente la società e il miliardario in questione concionano di possibili applicazioni cliniche che consentiranno al BCI di rimediare – un giorno, forse, chissà – ai danni arrecati dalle solite malattie neurodegenerative i cui nomi vengono sgranati dai santoni della biomedicina neanche fossero le decine del rosario (Alzheimer, ora pro nobis; Parkinson, ora pro nobis, Corea di Huntington, ora pro nobis, ecc.). E così facendo continuano a intortare il pubblico sulle meraviglie della scienza facendo il verso alla inflazionata frase di incerta paternità, e di ancor più ambiguo contenuto, che fa bella mostra di sé nella sala delle conferenze del CNR: “La luce della scienza cerco e’l beneficio”.
Ora, a parte il fatto che di miliardari più o meno sani di mente che finanziano progetti più o meno diabolici è piena la letteratura, c’è bisogno di ricorrere alla letteratura, appunto, per capire che il BCI non si prefigge scopi clinico-terapeutici, ma di controllo a distanza e di soggiogamento totalitario?
E’ vero che le moltitudini di persone che vivono con il cellulare in mano, e che credono ciecamente nella tecno-scienza, si farebbero impiantare nel cervello anche la Torre Eiffel pur di dire “Mamma, butta la pasta ché sto arrivando” con un battito di ciglia, invece che con una telefonata: ma il fatto che le vittime siano masochiste non esclude la responsabilità del sadico e soprattutto non esime le istituzioni dal vigilare sulla deriva del potenziale biotecnologico. Se non fosse che, come il Covid ha finalmente messo sotto gli occhi di tutti, le “istituzioni” non sono altro che l’emanazione organica e funzionale di quei centri di interessi che finanziano e promuovono proprio il BCI, tra le altre cose.
Sarà che, purtroppo o per fortuna, queste cose le dicevo già nel 2002, quando portai all’attenzione del Comitato Nazionale per la Bioetica i rischi e i pericoli delle nanotecnologie e delle altre converging technologies (neuroscienze, intelligenza artificiale, biologia sintetica, robotica e compagnia cantante), pestando evidentemente qualche piede di troppo: infatti fui prontamente destituito tra il compiacimento di tutta una serie di “colleghi” che in quegli stessi anni stavano pianificando, all’ombra delle multinazionali, carriere accademiche, scientifiche, politiche e gestionali.
E quindi sai che noia, oggi, dopo vent’anni, sentirmi dire: “Ma hai saputo del BCI? Incredibile, pensa che…” e bla bla bla.