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Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce *

Un po’ come le alluvioni, causate sempre dal cambiamento climatico e mai dal mancato rispetto dei vincoli idrogeologici, la caduta degli alberi è sempre dovuta al vento o alla pioggia o alle eclissi solari e mai e poi mai a dinamiche sorprendenti per la loro linearità.

Partiamo dai dati: secondo il Comune di Roma, dal 2022 a oggi sono stati abbattuti circa 20.000 grandi alberi (50.000 secondo le associazioni di cittadini) e ne sono stati ripiantati circa 2.000, di cui il 70% è morto per mancanza di cure.

Il motivo degli abbattimenti? Nessuno lo sa, visto che sono gli agronomi delle ditte cui il Comune appalta la manutenzione del verde a decidere quali alberi abbattere: ma se vi serve un esempio, pensate al meraviglioso platano secolare che svettava di fronte all’ingresso del Mattatoio, a Testaccio, e che è stato abbattuto due settimane fa per fare spazio a un ipertecnologico e quindi orripilante cartellone pubblicitario, senza che nessuno alzasse un dito per impedirlo.

E’ un caso limite, direte voi, e infatti è più frequente che un albero venga abbattuto perché ammalato o secco: ma, anche in questo caso, chi volete che si metta a questionare se l’albero in questione si era ammalato o seccato perché, in precedenza, era stato capitozzato maldestramente, magari nel periodo più sbagliato dell’anno, oppure perché aveva avuto le radici tranciate dalla solita ruspa intenta ad aprire il manto stradale per riparare fogne, condotte dell’acqua, tubi del gas, cavi telefonici, fibre ottiche, ecc.

Un’altra ragione che motiva gli abbattimenti, su scala nazionale, è la necessità di produrre biomassa, e cioè energia “rinnovabile” in linea con lo stolido refrain della sostenibilità ambientale. La produzione di biomassa è del resto incentivata senza falsi pudori dalla legge n. 136/2023, recante norme in materia di “investimenti strategici”, che ha sorprendentemente eliminato i vincoli paesaggistici a tutela delle foreste allo scopo esplicito di “sviluppare le potenzialità della filiera nazionale foresta – legno” (sic!), e cioè allo scopo esplicito di convertire in legna da ardere ciò che resta dei boschi e degli alberi italiani.

Ma, in fondo, perché stupirsi? In un Paese il cui paesaggio è stato completamente devastato nell’arco di pochi decenni, e dove ogni anno si trasformano in cemento 100.000 ettari di territorio, può forse esistere una cultura ambientalista che vada oltre la facciata?

Pensate che Medellin, la città colombiana che certo non deve il suo benessere alle biomasse, grazie a un lungimirante piano di incremento del patrimonio arboreo è riuscita a diminuire del 25% i ricoveri per malattie respiratorie: il Bel Paese, invece, è il primo in Europa per morti dovuti all’inquinamento ambientale (80.000 all’anno) e la soluzione che molti propongono, concionando di climate change e di CO2, non è salvaguardare gli alberi, ma creare le “città dei 15 minuti”.

Chissà se, alla base di due visioni così differenti, c’entri qualcosa il consumo di cocaina.

 

(*) Lao Tse, filosofo cinese fondatore del Taoismo (VI sec. a.C.)