A nessuno, e tanto meno ai media e ai politici europei, passa per la testa l’idea di proporre concretamente misure in grado di limitare l’importazione di prodotti cinesi, potenziali (dico: potenziali) vettori del Coronavirus, applicando così alle merci lo stesso approccio precauzionale su cui si basano le misure di quarantena utilizzate per limitare la circolazione delle persone infette dal virus.
Si dirà: ma in questo modo si rischia di bloccare il più importante flusso di scambi a livello mondiale. E, infatti, proprio per questo motivo a nessuno viene in mente di proporre concretamente l’idea di cui sopra.
Ma resta il fatto che, secondo il diritto internazionale, le misure fondate sul principio di precauzione vanno adottate in condizione di incertezza scientifica, e dunque quando non si conoscono i rischi derivanti da certe attività: quali, ad esempio, importare e diffondere merci e prodotti provenienti da una zona contaminata. Pertanto, a meno che non si provi scientificamente che quelle merci e quei prodotti non possono essere vettori del virus, eventuali misure restrittive degli scambi commerciali fondate sul principio di precauzione devono essere considerate legittime; anche se è ovvio che gli alfieri del libero commercio (dal WTO all’UE) la pensano diversamente e fanno di tutto affinché, attraverso i media, l’opinione pubblica si formi un’altra e diversa percezione del problema.
Il ruolo del principio di precauzione non fa che richiamare alla mente la funzione fondamentale del diritto, che in ultima analisi è tentare di comporre i conflitti tra le diverse e contrastanti esigenze avvertite come generali da una determinata comunità in un dato momento storico. E quindi, nell’attuale comunità internazionale e nel presente momento storico, la tutela della salute, dell’ambiente e della sicurezza, da una parte; lo sviluppo tecnologico, industriale e commerciale, dall’altra. Ma è singolare che, nei contesti prima ricordati (WTO e UE), a prevalere siano sempre le seconde esigenze sulle prime.
Altrettanto singolare è che, pur in assenza di qualsivoglia misura restrittive degli scambi commerciali di prodotti cinesi, la borsa di Pechino già corra ai ripari e, grazie a straordinarie “iniezioni di liquidità” (magica formula dai misteriosi significati), anticipi e attenui i contraccolpi derivanti dalla sfiducia che i consumatori europei – e non solo – potrebbero manifestare da un momento all’altro nei confronti dei prodotti della Repubblica popolare.
Ciò che evidenzia, una volta di più, lo scollamento tra economia reale e economia finanziaria e l’indiscusso primato della seconda sulla prima. Che infatti – molto più dei prodotti cinesi – è intoccabile.
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