Da qualche giorno rimbalza sui social un breve testo satirico attribuito al cabarettista siciliano Roberto Lipari, attualmente inviato di Striscia la notizia e già vincitore della prima edizione di Eccezionale veramente, talent show comico andato in onda su La7 nel 2016.
Il testo in questione, con le sue piccole sbavature d’ortografia e interpunzione, è facilmente reperibile su Facebook.
Ora, questo “manifesto” del fantomatico movimento no-sem, che ha goduto di grande fortuna nei mesi scorsi fino a diventare virale sui social, parrebbe essere una sorta di spin-off tratto da un servizio televisivo di Striscia la notizia, realizzato dallo stesso Lipari e originariamente andato in onda nell’ottobre 2020, nel quale il comico siciliano faceva il verso ai cosiddetti no-mask.
Guarda chi riciccia, verrebbe da dire. In questi ultimi mesi, infatti, a partire dal novembre 2020 e con un’impennata di condivisioni nell’ultima decade del luglio 2021, il materiale impiegato per il confezionamento del servizio tv contro i no-mask è stato evidentemente riciclato, rifuso e piegato ai fini della propaganda tanto contro i no-vax (etichetta, sia detto per inciso, ambigua e pericolosa), quanto contro i cosiddetti no-pass. In forza di una supposta analogia tra semaforo e vaccino (o tra semaforo e green pass), questo testo satirico vorrebbe dunque accreditarsi come parodia delle più diffuse argomentazioni avanzate dai fautori della libertà di scelta vaccinale (o dagli oppositori della «certificazione verde»), insomma da coloro che l’opinione pubblica è stata addestrata a chiamare ora con il nome di «negazionisti», ora con quello di «complottisti». Argomentazioni, le loro, talmente assurde da non meritare nemmeno di essere discusse ed eventualmente confutate, ma solo ridicolizzate.
Il “manifesto” in sé invece è stato preso tremendamente sul serio da moltissime persone, che l’hanno scambiato evidentemente per una confutazione in piena regola, e ha ricevuto l’endorsement nientepopodimeno che della Fondazione Critica Liberale, che l’ha riproposto in due occasioni, nel novembre 2020 e nel luglio 2021, definendolo «un’ideona» e insignendolo idealmente del lib pass, la patente di liberalismo che la rivista liberalmente conferisce ai veri campioni del pensiero liberale per distinguerli dagli pseudo-liberali, bollati invece con l’epiteto infamante di «liberaloidi». Tra i tanti altri che hanno dato visibilità al “manifesto” no-sem, si segnala anche il sito QuotidianoMotori, che ha però avvertito il bisogno di specificare, a beneficio del lettore, che si tratta di un testo «ovviamente ironico» e che, nella vita di tutti i giorni, bisogna rispettare il rosso semaforico e le norme del codice della strada. Troppa grazia.
Per capire se il testo è efficace, bisogna innanzitutto partire da un’analisi dell’analogia che serve a strutturarlo e vedere se questa può dirsi fondata. Anche solo a prima vista, il paragone tra semafori e vaccini (o green pass) appare forzato e capzioso – la parte più efficace è forse l’accostamento dei decessi da collisione contro i pali del semaforo alle morti per reazioni avverse in seguito alla somministrazione del vaccino, il che è tutto dire… –, ma il punto essenziale è un altro: nessuno contesta la necessità di norme che disciplinino la vita di una comunità; il problema sorge quando queste stesse norme diventano discriminatorie nei confronti di una determinata categoria di persone. Una norma può senz’altro introdurre legittimamente una distinzione tra gruppi di persone, purché tale distinzione non sia illogica e inutilmente vessatoria, purché non sia cioè una discriminazione. Tutti accettano serenamente di fermarsi al semaforo, quando è rosso, e nessuno si è mai sentito discriminato per questo; se invece, ad esempio, una nuova legge vietasse alle persone affette da HIV di salutare stringendo la mano o di bere alle pubbliche fontane, immediatamente sarebbero palesi l’illogicità e la natura inutilmente vessatoria di questo provvedimento che introdurrebbe una forma di discriminazione.
A volere poi fare le pulci al testo, come fattomi notare da un amico esperto di treni, è del tutto logico che, quando un semaforo malfunzionante dà segnali inattendibili o contraddittori, con la debita prudenza si può – anzi si deve – disubbidire al semaforo stesso (nel codice ferroviario si parla appunto, in casi del genere, di «marcia a vista»), diventando così, a buon diritto, no-sem (con buona pace del buon Lipari).
L’idea di sfruttare il codice della strada o particolari elementi da esso desunti (la cintura di sicurezza, il casco, la patente di guida, etc.) nella discussione sulla liceità dell’obbligo vaccinale non è però affatto nuova. Nel panorama piuttosto desolante della stampa nostrana, «il Post» ha avuto il merito di pubblicare un’analisi un po’ più strutturata e meno faziosa della media sull’argomento, citando anche il parere di alcuni filosofi francesi le cui argomentazioni consuonano singolarmente con lo spirito del testo satirico attribuito a Lipari (bisognerebbe quindi appurare se il cabarettista siciliano abbia tratto spunto dai filosofi francesi o se i filosofi francesi abbiano tratto spunto dal cabarettista siciliano; nel dubbio, si può optare per una comoda poligenesi). Anche in questo caso, però, a ben vedere, l’analogia è, a dir poco, zoppicante e risulta facilmente falsificabile per i motivi già esposti e per altri che non è possibile affrontare nel dettaglio qui. Sullo sfondo, però, la questione sollevata da questo dibattito appare di portata ben più ampia. Se obbedire alla legge senza porsi domande sul fondamento di giustizia della legge stessa fosse considerato sempre e comunque giusto per definizione, dovremmo correre a riscrivere la storia della nostra civiltà: Polinice resterebbe insepolto, le Tredici colonie farebbero il tifo per la Nazionale dei Tre Leoni e Luigi XVI sarebbe morto di vecchiaia nel proprio letto…
Ciò detto sul contenuto, è il caso di spendere due parole sulla vis comica del testo che, in quanto appartenente al genere satirico, dovrebbe, almeno in teoria, muovere al riso. Ma la risata, si sa, è questione di gusto, quindi opinabile. Chi trova esilarante questo brano, si sarà probabilmente sbellicato al cospetto degli sketch «zeniali» (Boris, cit.) di LOL – Chi ride è fuori. E infatti nei commenti su Facebook, e sui siti che hanno ripreso il testo, tra i diversi aggettivi elativi usati per descriverlo, è proprio «geniale» a farla da padrone: una «genialata», secondo diversi utenti, cui fa eco un articolo del «QN» che definisce questo testo una «geniale parodia, che speriamo non offenda nessuno». Ma fin qui nulla di strano: similes cum similibus, come si suol dire. Amici come prima.
Sarà invece più interessante interrogarsi sul tipo di satira esibito dal breve testo di cui sopra. A norma di definizione, la satira è il genere letterario che «evidenzia e mette in ridicolo passioni, modi di vita e atteggiamenti comuni a tutta l’umanità, o caratteristici di una categoria di persone o anche di un solo individuo, che contrastano o discordano dalla morale comune (e sono perciò considerati vizî o difetti)» (Vocabolario Treccani). In base al rapporto di forza esistente tra il satirico e il gruppo (o l’individuo) satireggiato, sarà possibile distinguere tre tipi di satira: nel primo tipo, il satirico è socialmente subordinato rispetto al bersaglio della propria satira; nel secondo tipo, per contro, è socialmente sovraordinato rispetto ad esso; infine, nel terzo e ultimo tipo, assai più raro rispetto ai precedenti, il satirico appartiene allo stesso strato sociale, al medesimo milieu del soggetto satireggiato.
Si potrebbe dire che, tradizionalmente, il primo tipo di satira ambisce a realizzare a parole i precetti con cui Anchise addita a Enea la missione ideale dell’impero romano: debellare superbos, ovvero, in ambito satirico, mettere alla berlina i potenti, i saccenti, gli arroganti, ma, al contempo, parcere subiectis, ovvero risparmiare coloro che, per le ragioni più disparate, sono poveri, sconfitti, derelitti o versano in qualsivoglia stato di subalternità. Questo primo tipo di satira è quindi caratterizzato da una forte carica dissacrante e demistificatoria e, proprio nella misura in cui punge e morde il privilegio, può risultare talora disturbante e potenzialmente eversivo.
Il secondo tipo di satira, attestato fin dal Medioevo nella forma della cosiddetta «satira del villano», risulta invece fondato su un’inversione dei termini: in questo caso, il personaggio subordinato, eventualmente dotato, per compenso, di una certa astuzia e propensione alla frode, viene deriso da un io satirico che è portavoce o espressione di un gruppo elitario. L’umile, l’incolto, l’inferiore viene ulteriormente schiacciato e avvilito dalla controparte sovraordinata che così, proprio in virtù di questo gesto, rinsalda i meccanismi di appartenenza al gruppo di cui celebra la forza e ribadisce la superiorità. Questo secondo tipo di satira ha una funzione perlopiù rassicurante e consolatoria: contribuisce a scongiurare una temuta promiscuità e a rimarcare le distanze quando queste paiono pericolosamente minacciate dalla pratica sociale.
In età contemporanea, questo tipo di satira contro i subalterni, contro le posizioni minoritarie o discriminate, ha trovato terreno fertile nelle diverse incarnazioni storiche dello Stato etico, finendo spesso per coincidere con la cosiddetta «satira di regime» e, proprio per questo, in virtù dei meccanismi stessi di funzionamento delle democrazie liberali, al giorno d’oggi è perlopiù avvertito come inappropriato, offensivo e osceno.
Esemplari di questo secondo tipo di satira possono essere considerate le vignette realizzate negli anni Trenta dal disegnatore siciliano Enrico De Seta per rinvigorire il morale delle truppe coloniali italiane impegnate nella conquista dell’Etiopia: in queste cartoline, gli abissini sono equiparati a insetti, ciò che legittimerebbe il ricorso al gas tossico da parte dei colonizzatori come «arma più opportuna» per debellarli (si veda l’immagine di copertina di questo post).
In una democrazia liberale, come detto, questo tipo di satira è perlopiù considerato relitto di un passato autoritario: non solo non fa più ridere, ma desta anche un sentimento di riprovazione frammista a vergogna per ciò che è stato.
Un esempio più recente di satira rivolta contro veri e propri subiecti, in senso etimologico, è quello delle vignette del settimanale satirico Charlie Hebdo raffiguranti i morti del terremoto di Amatrice del 2016 riversi gli uni sugli altri a comporre gli strati di un’immensa lasagna umana.
Queste vignette non rappresentano tanto un insulto al buon gusto, come pure è stato scritto, quanto piuttosto l’infrazione di un tabù arcaico solo parzialmente filtrato dalla giurisprudenza dello Stato di diritto: è abietto e disumano infierire, anche solo a parole, su chi non può difendersi. Cionondimeno, in questo caso, il tribunale di Parigi ha giudicato prevalente il diritto alla libertà di espressione (e di satira), rigettando come «irricevibile» la denuncia sporta dal Comune di Amatrice contro il settimanale satirico francese.
A ben riflettere, la satira del villano è ancora oggi alla base di tante irriflesse e corrive liquidazioni di ogni sorta di discorso rubricabile sotto l’etichetta di comodo di «complottismo»: anzi, il caso del sostantivo complotto è forse l’unico in cui un termine della nostra lingua, distorto nella grafia gombloddo (e simili) – quasi a ricalcarne una pronuncia centromeridionale stigmatizzata come popolare e incolta – è diventato il pilastro su cui poggiano tutte le (pseudo)confutazioni riconducibili alla grande famiglia della fallacia nota come argomento fantoccio. Quando qualcuno sostiene una tesi poco gradita, sarà allora sufficiente pronunciare o scrivere la parolina magica gombloddo, eventualmente seguìta da un congruo numero di punti esclamativi, per porre fine istantaneamente alla discussione, liquidando la tesi dell’interlocutore come un’aperta sciocchezza (su questo aspetto, si leggano anche le parole del compianto Giulietto Chiesa). Qualcosa di molto simile a quanto compiuto recentemente da Selvaggia Lucarelli, la quale, ritenendo forse di rendere un singolare servizio al Paese e alla libertà d’espressione, ha liquidato, via Twitter, come «stronzate» le recenti proteste di piazza di migliaia di suoi concittadini preoccupati per le discriminazioni che la prossima entrata in vigore del green pass recherà in dote.
La Lucarelli – per ironia della sorte già membro della giuria del talent show che nel lontano 2016 consegnò la vittoria proprio a Roberto Lipari, presunto autore del testo satirico citato all’inizio – avrebbe forse fatto prima e meglio a twittare semplicemente una parola: gombloddo! Quantomeno, a profondità e lucidità d’analisi invariate, avrebbe risparmiato una manciata di caratteri, che, quando si cinguetta, si sa, vanno centellinati.
Liquidate frettolosamente come «stronzate» dalla Lucarelli, la ghettizzazione e la discriminazione di una parte cospicua del popolo italiano sembrano invece una concreta e appetibile possibilità al virologo Roberto Burioni che, con lessico da vero scienziato, è giunto recentemente a paragonare i no-vax (ancora il ricorso a questa etichetta volutamente imprecisa e denigratoria) a «sorci» giustamente condannati all’emarginazione sociale dalla prossima entrata in vigore del green pass.
Toni così accesi fanno il paio con quelli («Li purghiamo con il Green Pass»), utilizzati di recente da un esponente politico romano, che riesumano, come segnalato da Giorgio Agamben, «un gergo fascista», (anche se forse, in questa specifica scelta lessicale, ha pesato anche la mediazione fondamentale del gergo pallonaro e della figura carismatica der “Pupone” Francesco Totti: sua la celebre maglietta celebrativa con la scritta «Vi ho purgato ancora», in riferimento ai tifosi laziali). E, d’altronde, purgare significa ‘purificare’ ed è termine di ambito medico, esattamente come regime, che, letto sdrucciolo, richiama subito alla memoria il Regimen sanitatis della medicina medievale.
A questo punto si può comprendere a quale tipo di satira appartenga il “manifesto” no-sem citato all’inizio. Allo stato attuale, i poli del dibattito e i rispettivi schieramenti risultano infatti assai ben delineati: da una parte, i fautori dell’obbligo vaccinale, che, essendo allineati alle posizioni delle autorità sanitarie e politiche (invero difficilmente distinguibili negli ultimi tempi), incarnano il polo alto; dall’altra, tutti coloro che, mettendo in dubbio o criticando apertamente la fondatezza e l’efficacia delle disposizioni delle predette autorità, incarnano di fatto il polo subalterno. Questi ultimi non soltanto sono, al momento, minoritari, ma anche vengono quotidianamente dipinti dai media come minorati: rustici, ignoranti, superstiziosi (illuminante, a questo proposito, l’identikit del no-vax medio tratteggiato qualche mese fa dal quotidiano «la Repubblica» in un articolo infarcito di strafalcioni, scritto evidentemente da un no-vax), sporchi, brutti e cattivi. In breve, la feccia del Paese, il prototipo del villano del XXI secolo: ecco il bersaglio della corrosiva satira del “manifesto” no-sem.
In un momento in cui una parte della popolazione rischia davvero di perdere il lavoro e il diritto a una piena cittadinanza se non accetta di farsi inoculare un farmaco sperimentale, si potrebbe forse aggiungere, da ultimo, che è indicativo dello stato di salute della nostra democrazia che un testo quale quello del “manifesto” no-sem sia condiviso senza riflettere anche da parte di docenti ai quali, a partire dallo scorso anno, è stato affidato l’insegnamento di una disciplina, l’Educazione civica, incentrata sulla trasmissione dei princìpi fondamentali della nostra Costituzione.
Ma se pretendessi di escludere costoro dall’insegnamento o di discriminarli in qualche modo per ciò che postano sui social, non farei altro che replicare a mia volta i medesimi meccanismi che ho criticato: e questa forma di moralismo d’accatto, questo «civismo superlativo» – in base al quale, come ha scritto Agamben sulla scorta di Zylberman, «gli obblighi imposti vengono presentati come prove di altruismo» e chi non si conforma ad essi è ipso facto un irresponsabile – non appartengono alla morale, né trovano spazio nell’idea di democrazia di chi scrive. La satira, anche quando, come in questo caso, ha tutti gli attributi della più oscena satira di regime e confina, a tratti, con il (cyber)bullismo, resta un diritto costituzionale – e in quanto tale deve essere tutelato.
Resta, tuttavia, che chi, in un momento come questo, condivide post di questo tenore, si presta a offrire un piccolo ma decisivo contributo all’imbarbarimento del dibattito pubblico, si diletta a rimettere in circolo, consapevolmente o meno, una vecchia forma, mai del tutto tramontata, di satira reazionaria e deve sinceramente augurarsi che la compressione delle libertà, di cui è oggi così solerte assertore, non produca conseguenze che si dispiegheranno compiutamente soltanto quando sarà ormai troppo tardi per tornare indietro.