In un articolo pubblicato qualche mese fa su una rivista dedicata alla cultura del vino, si lamenta la scarsa capacità di “fare rete” da parte dei produttori di un ottimo (e, per fortuna, ancora poco conosciuto) vino siciliano, il Cerasuolo di Vittoria. Secondo l’articolo, infatti, i produttori in questione sarebbero pochi e, producendo di conseguenza poco vino – circa 6.000 ettolitri nel 2016, addirittura il 12% di meno rispetto al trienno precedente – non riuscirebbero a “imporsi sul mercato” (cfr. L’Assaggiatore, n. 13, marzo 2019, pag. 49 e ss.).
Eppure, continua l’articolo, la zona di Vittoria (la greca Kamarina, perla dei Monti Iblei) e l’intero areale compreso tra i fiumi Dirillo e Ippari erano vocati alla viticoltura già secoli prima di Cristo, come testimonia il ritrovamento in mare di vasi potori ancora colmi di vino Me-Mes (Mesopotamium), prodotto appunto nella pianura che si estende tra i due fiumi citati. La vocazione dell’area venne ulteriormente incentivata, a partire dal ‘600, ad opera della famiglia Colonna Henriquez-Cabrera (una cui esponente, Vittoria, ha dato il nome all’attuale città) e, più tardi, nel 1777, dall’esenzione dal regio dazio sul mosto. Ciò determinò il proliferare dei bagli e l’incremento continuo della viticoltura, che nell’Ottocento arriverà ad interessare migliaia di ettari e motiverà anche la ripresa delle attività portuali alla foce dell’Ippari, con la creazione dello scalo di Scoglitti: l’articolo ricorda ancora che nel 1860, proprio da Scoglitti (dove, nel 1943, sarebbero sbarcati gli Americani), l’esportazione dei vini di Vittoria toccò i 300mila ettolitri (essenzialmente Frappato e Nero d’Avola).
L’arrivo della filossera, alla fine dell’Ottocento, fece giustizia della monocultura dominante, provocando la rovina di centinaia di piccoli produttori e favorendo la concentrazione della produzione nelle mani dei grandi proprietari terrieri, i soli che poterono permettersi di acquistare e sviluppare i nuovi innesti su vite americana, da cui sarebbe derivato l’odierno Cerasuolo.
La storia di Vittoria e del suo vino è oggi la storia della Puglia e del suo olio.
Per capire meglio, seguite le seguenti istruzioni e sostituite: 1) alla filossera la xylella; 2) ai piccoli produttori di Cerasuolo che non “fanno rete”, i piccoli produttori pugliesi di olio che vogliono solo portare avanti, in santa pace, secolari modelli di autoproduzione e autoconsumo; 3) alle varietà di vite americana resistenti alla filossera la varietà di olivo “leccina”, che oggi si ritiene resistente alla xylella ma che domani, quando diventerà monocultura dominante, potrebbe trasformarsi nel bersaglio ideale di future fitopatie.
A ciò aggiungete un regime normativo che: 1) ostacola esplicitamente lo svolgimento dell’attività di ricerca scientifica volta ad accertare il nesso di causalità tra il batterio xylella e la patologia denominata Complesso del disseccamento rapido dell’olivo (CODIRO); 2) pur in assenza di prove di questo nesso, promuove esclusivamente interventi di lotta al batterio (e non al CODIRO!) fondati sull’impiego massiccio di diserbanti e di insetticidi neurotossici anche per i mammiferi; 3) legittima l’eradicazione di tutti gli olivi sani nel raggio di 100 metri da quelli malati; 4) commina onerose sanzioni pecuniarie (fino a 60.000 euro) a chi si oppone all’espianto degli olivi, anche solo per promuovere accertamenti e sperimentazioni.
A questo punto shakerate il tutto con: 1) la sostituzione di cultivar millenarie, presenti solo in Italia, con varietà non endemiche, che richiedono metodi agro-industriali di lavorazione intensiva e che favoriscono la concentrazione della produzione; 2) la riduzione della biodiversità derivante da questa sostituzione e dalla conseguente, inevitabile, omologazione delle cultivar; 3) la riconversione di una parte dei terreni olivetati verso altre monocolture di tipo industriale a più alto valore aggiunto (quali, ad esempio, la vite); 4) la concorrenza dei prodotti alimentari derivanti dalle nuove varietà intensive con quelli tradizionali del “Made in Italy”, che saranno costretti, per sopravvivere, all’omologazione della qualità e al livellamento verso il basso dei prezzi; 5) la perdita di stili di vita la cui recente rivalutazione ha contribuito a rilanciare l’economia di Regioni da anni al centro di un vero e proprio boom turistico e immobiliare (come la Puglia); 6) la cancellazione di ciò che resta di paesaggi naturali, antropici e culturali unici e inconfondibili (patrimonio comune delle generazioni presenti e future tutelato dalla Costituzione) in un Paese, come l’Italia, che è in grado di trasformare in cemento anche 100.000 ettari di territorio l’anno: 7) l’eliminazione tout court, in prospettiva, della destinazione agricola dei terreni per far posto alle grandi infrastrutture della cosiddetta green-economy (dalle pale eoliche alla TAP).
E capirete alla fine chi è il mostro da abbattere. Quel mostro che, dopo avere per anni armonizzato, uniformato e massificato cultura, tradizioni, gusti, tendenze, valori e identità, vuole ora soffocare anche la vostra autonomia alimentare e quindi viene a casa vostra, guarda i vostri olivi, vi dice che sono infetti, vi impone di avvelenare il terreno, l’aria e l’acqua che vi circonda, vi obbliga ad eradicare olivi malati e olivi sani insieme, vi spinge a sostituire gli olivi di vostro nonno con le varietà che lui ha stabilito e vi costringe, alla fine, a fare l’olio che vuole lui (ammesso che non rinunciate a farlo, tanto c’è sempre il supermercato). E nel fare ciò, il mostro in questione non sputa fuoco e fiamme, non vi strappa le carni con gli artigli, non mangia i vostri bambini, ma usa lo strumento del diritto, quel diritto approvato da rispettabili istituzioni democratiche che sono da anni garanzia di pace e di prosperità e che, a loro volta, costituiscono espressione della vostra volontà, visto che proprio voi siete chiamati ad eleggerle ogni cinque anni.
Avete capito chi è il mostro da abbattere?
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