Il fatto è che la democrazia non va un tanto al chilo come la mortadella (o mortazza, come si dice a Roma Capitale). E quindi ridurre le spese di funzionamento del Parlamento non si traduce, necessariamente, nel miglioramento dell’efficienza complessiva del sistema democratico. Senza contare che il (presunto) risparmio di 50 milioni di euro all’anno è niente, se confrontato al gettito che deriverebbe, ad esempio, da concrete misure di lotta all’evasione fiscale: gettito, quest’ultimo, stimabile nell’ordine di centinaia di miliardi – e non di milioni – di euro.
Ma, tant’è, in un Paese drogato di politica, come il nostro, la vittoria del sì al referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari è stata propalata dai partiti, e dai media, come una vittoria della democrazia. Almeno, di quel peculiare sistema di governo che, in Italia, va sotto questo nome.
Che il nostro sistema democratico costituisca un unicum assoluto nel panorama occidentale, infatti, si ricava agevolmente dalla storia politica dell’Italia repubblicana. Stupisce ancora oggi che, nell’aprile 1948, la DC di De Gasperi (creata appena cinque anni prima sulle ceneri del Partito popolare) sia riuscita a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, sbaragliando partiti di ben più solide tradizioni. Anche perché, a parte far credere a tutti i “sinceri democratici” sopravvissuti a vent’anni di fascismo che non esistevano alternative praticabili, la DC non aveva fatto nulla di concreto – tanto meno durante la Resistenza – per meritare quel successo elettorale.
Certamente non fu un merito avere alleati deboli e perciò fidati (repubblicani, socialdemocratici, gli stessi liberali), né avversari forti ma non troppo pericolosi (socialisti e comunisti). Né fu un merito autodefinirsi partito “interclassista”, coniando un termine ambiguo e contraddittorio che, dietro una parvenza di elaborazione dottrinale e ideologica, si prestava di fatto a coprire ogni inciucio destinato a mantenere in mano alla DC la barra di comando di quella “area democratica” che avrebbe governato incontrastata il Paese nei decenni successivi.
Neppure la nascita del “centro-sinistra”, conseguente all’ingresso nel governo dei socialisti – nel pieno del boom economico e delle relative trasformazioni sociali (1963) – riuscì a scalfire il metodo democristiano di gestione del potere. Metodo consistente essenzialmente nell’identificare una classe politica (la propria) con quella dirigente: ciò che ha costituito la premessa necessaria per piazzare amici e parenti di provata fede nei posti-chiave del Paese, riservando qualche poltrona anche agli alleati di governo (e chi non ricorda il “manuale Cencelli”?).
Ora, questo metodo di gestione del potere, sopravvissuto alla “strategia della tensione”, al “compromesso storico” e alle varie “alternative democratiche”, fatto proprio tanto dai successori della DC quanto dai successori degli altri partiti del vecchio “centro-sinistra” ed esportato con successo anche all’estero, è così radicato nel sistema politico italiano da risultare praticamente immutabile: sarà un caso che l’Italia è tra i Paesi meno meritocratici (o, se preferite, più corrotti) d’Europa e del mondo occidentale? E, possiamo scommetterci, la riduzione del numero dei parlamentari farà scopa con nuovi e più incisivi sistemi di mantenimento del potere nella mani di chi ce l’ha già.
Pertanto, più che il risultato referendario, di cui si sono già appropriati tutti i partiti senza distinzione di colore politico, io proverei a interpretare i sentimenti e le motivazioni di chi ha, o non ha, votato.
Chi ha votato sì perché è convinto che questa sia la strada per migliorare l’efficienza democratica, forse ha visto troppa televisione, perché la riduzione del numero degli onorevoli e dei senatori non si traduce necessariamente nell’avere parlamentari più efficienti e più onesti (anzi, secondo la logica della “democrazia a peso” di cui si è detto in apertura, meno rappresentanti in Parlamento non vuol forse dire meno democrazia?); chi ha votato no espressamente per mantenere lo status quo parlamentare o soltanto per opporsi al governo in carica – o addirittura, ma queste cose succedono solo in Italia, per opporsi all’opposizione – di fatto segue le medesime logiche da salotto politico-mediatico; e chi ha votato in un senso o nell’altro, o non ha votato, perché insoddisfatto o deluso dall’attuale offerta politica, stanco dei personalismi di facciata, critico rispetto ai messaggi prevalenti, o perché semplicemente ci ha riflettuto sopra, sia benvenuto nella minoranza che ormai vive in esilio nel proprio Paese.