Ebbene sì, siamo andati in “villeggiatura”, come si faceva negli anni Sessanta caricando il materasso sul portabagagli della Fiat 1100 e stipando l’abitacolo di valigie, bambini, pinne e maschere (da sub).
Ci siamo goduti due mesi di quiete, immersi nel caldo torrido dell’estate mediterranea, senza computer, in un posto dove il telefono non prende o prende male, limitando allo stretto indispensabile i contatti con gli altri. E non solo per paura del Coronavirus, anche perché in fondo non ce n’era motivo: isolati in cima ad una collina, con le cisterne piene d’acqua, l’orto a disposizione, gli alberi carichi di frutta e le galline nel pollaio, al supermercato siamo andati solo per comprare i detersivi e i guanti usa e getta: un po’ come faceva la nonna.
Ma al rientro dalla villeggiatura (durante la quale abbiamo lavorato alacremente per mantenere l’orto, gli alberi, il pollaio, la vigna, e poi il tetto, i recinti, la cisterna, ecc.) ci è toccato fare i conti con due realtà: la prima è che nulla è cambiato rispetto alla primavera, perché i contagi sono in aumento, la paura – alimentata ad arte dai media – continua a serpeggiare tra la gente, il Paese continua ad essere governato per decreto e già qualcuno parla del (o invoca un) nuovo lockdown; la seconda è che, a proposito di guanti usa e getta, abbiamo assistito, sia pur da lontano, ad uno smodato, insaziabile, esponenziale, inesauribile incremento del consumo della plastica.
Ma è mai possibile? Dopo che per anni i media ci hanno rintronato con favolette quali lo sviluppo sostenibile, il km zero, la green-economy, le energie alternative e “pulite” (come le pale eoliche, poi rivelatesi la più seria minaccia per l’ambiente nei siti dovo sono state installate) e dopo che per anni gli stessi media ci hanno tenuto sotto l’incubo del cambiamento climatico, dello scioglimento dei ghiacciai, del buco nell’ozono fino ad arrivare, appunto, alle isole di plastica galleggianti negli oceani, ecco che la plastica torna prepotentemente alla ribalta.
Guanti, mascherine, visiere, barriere protettive, bicchieri, coppette, posate, bottiglie, piatti, vaschette per alimenti, tute, grembiuli, asciugamani, imballaggi, termoscanner, confezioni di prodotti igienizzanti e chi più ne ha più ne metta, una valanga di plastica, tutta rigorosamente “usa e getta”, sta invadendo – come prima e molto più di prima – la nostra vita di tutti i giorni. Solo in Italia, si parla di 100 tonnellate di rifiuti plastici prodotte giornalmente dall’emergenza Coronavirus.
Si dirà: di fronte a una crisi sanitaria così importante ogni altra considerazione passa in secondo piano. Sarà. Ma resta il fatto che – anche mettendo da parte ogni ipotesi di complotto – la crisi sanitaria in questione potrebbe essere stata causata proprio dai danni inferti all’ambiente e all’habitat umano negli ultimi decenni.
Difficile da credere? Vediamo un po’. Se negli anni Sessanta l’uomo consumava il 70% circa delle risorse naturali offerte dal pianeta, nel 2020 questa percentuale si è più che raddoppiata (si parla del 160%) e il cosiddetto “overshoot day” (e cioè il giorno in cui l’umanità ha consumato tutte le risorse prodotte dalla Terra nel corso dell’anno) cade ormai sempre prima: quest’anno il 22 agosto, appena tre giorni fa.
Intendiamoci: l’aumento della produzione e del consumo di plastica non sarà direttamente responsabile dello sgretolamento delle Alpi (dal Cervino al Monviso) di cui qualcuno parlava in questi giorni, ma senz’altro si colloca a monte di una serie di logiche, di dinamiche e di eventi che sicuramente non hanno – diciamo così – a cuore la tutela dell’ambiente, della biodiversità e, conseguentemente, della salute umana.
Certo, se si pensa che la plastica è figlia del petrolio e che le potenti major petrolifere non rinunceranno facilmente ad un mercato che si è quadruplicato negli ultimi 40 anni e che promette sviluppi maggiori rispetto a quello degli stessi idrocarburi, non c’è da farsi molte illusioni sull’eventualità che, in futuro, si riduca il consumo della plastica.
Covid o non Covid.