Insomma è ufficiale, chi ha un cane può uscire di casa per fargli fare pipì. Gli altri, tutti chiusi dentro e zitti. Salvo che si debba andare a fare la spesa. O andare in farmacia, anche se in commercio non c’è ancora, purtroppo, un farmaco anti-Coronavirus. O che si rientri negli “altri motivi particolari” previsti dal modulo ministeriale della famosa autocertificazione, motivi che, proprio in quanto “particolari”, sono rimessi alla più o meno fantasiosa discrezione di ciascuno di noi. Per esempio: andare a comprare il giornale, visto che le edicole sono aperte per salvaguardare l’irrinunciabile libertà d’espressione (oltreché gli interessi dei media). Oppure scendere in strada per osservare la congiunzione planetaria di Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno, che di questi tempi potrebbe francamente apparire, a chi è superstizioso, un po’ sospetta.
Certo che questa storia del Coronavirus sta diventando un bel banco di prova per testare il grado di sopportazione collettiva delle misure restrittive (presenti e future) della libertà personale. Tutti dentro, pardon, tutti a casa: oggi i conclamati, domani i positivi, dopodomani i sospetti (già ci sono: gli asintomatici) e un giorno, chissà, quelli che starnutiscono, o che hanno più di 75 anni (se saranno sopravvissuti all’attuale pandemia) e/o gli occhi neri, o che sono alti meno di 179 cm.
Un giro di vite che fa scopa, ma è solo una coincidenza, con le dinamiche della sanità pubblica: per decenni abbiamo smantellato ospedali, in nome dell’approccio culturalmente mafioso che privilegia la concentrazione delle risorse in base alla “eccellenza” (che in parole povere vuol dire fottere i piccoli per premiare il grande), e oggi il sistema sanitario è praticamente in ginocchio di fronte ad un virus che richiede, prima di ogni altra cosa, pratiche di terapia intensiva, respiratori e ventilatori. Che è un po’ come ammettere che, da Pasteur in poi, la scienza medica non ha fatto quegli strabilianti progressi di cui molti parlano e che i tanti soldi spesi per finanziarie la ricerca scientifica in campi da molti considerati di frontiera (le cellule staminali embrionali, ad esempio) avrebbero potuto essere utilizzati meglio.
E in fondo non stiamo parlando della peste nera, anche se il confronto è quanto mai appropriato, visto che la peste (anch’essa originaria della Cina, ma è solo una coincidenza), dopo avere flagellato il mondo intero alla metà del ‘300, si ripresentò a cadenza quasi costante nei secoli successivi: proprio quello che sembra stia accadendo oggi con il Coronavirus, che secondo alcuni è uno sviluppo della SARS del 2003 (anch’essa originaria della Cina, ma è solo un’altra coincidenza). E allora la domanda sorge spontanea: in questi 17 anni non si poteva pianificare una risposta clinico-terapeutica al rischio di pandemie virali, invece di accendere i riflettori (politici, mediatici e finanziari) sui rutilanti sviluppi della biorobotica, delle neuroscienze, delle nanotecnologie e dello human enhancement, che oggi si rivelano del tutto impotenti di fronte ad una malattia “antica”?
Per fortuna, qualche virtuoso c’è: regioni pragmatiche ed efficienti costruiscono ospedali a tempo di record, anche grazie alla munificenza di privati, e trovano il coraggio per sfidare potentati accademici e professionali: da una parte producendo in casa i famosi tamponi, dall’altra assumendo neolaureati privi di investitura baronale (non avendo ancora superato il borbonico “esame di stato”). Ma non tutti sono così svelti: altre regioni parolaie e inconcludenti concionano da settimane sul numero degli studenti fuori-sede inopinatamente rientrati tra le mura domestiche (e portatori più o meno inconsapevoli del virus), o assistono impotenti all’esodo di centinaia di operatori sanitari che si mettono “in malattia” (ma il Coronavirus stavolta non c’entra: si chiama strizza), affidandosi, di fatto, alla buona sorte.
L’antico, e noioso, gap tra Nord e Sud non viene colmato neppure da Coronavirus, che invece sta rimettendo in discussione stili di vita, abitudini e valori della gente comune. Pensate a quanti, normalmente divorati dall’esigenza di prendere l’aperitivo nei luoghi e negli orari giusti, di andare dall’estetista tre volte a settimana, di andare ogni giorno al centro commerciale per comprare pizze surgelate e sofficini, sono costretti a passare i pomeriggi in casa, magari imparando a fare il pane o chiedendosi cosa sono quegli oggetti di carta, pieni di righe nere su fogli bianchi, che fanno bella mostra di sé nella boiserie del tinello.
Proprio vero che non tutti i mali vengono per nuocere.
p.s. la foto ritrae Vittorio Gassman e Maria Grazia Buccella nella sequenza del film “L’armata Brancaleone” (di Mario Monicelli, 1966) in cui la Buccella, dopo aver irretito Gassman con le sue grazie, gli confessa davanti al talamo di essere rimasta vedova il giorno prima a causa de “lo Gran Morbo che tutti ci piglia”: andate a vedervi, o a rivedervi, la reazione di Gassman.
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