Cominciano i problemi della – o per la – App Immuni.
Nei giorni scorsi una signora di Bari (ovviamente ultrasessantenne) denuncia, dalle pagine di un diffuso quotidiano del Mezzogiorno d’Italia, di essere stata costretta dalla ASL ad una quarantena domestica di 15 giorni dopo che l’App – da lei scaricata volontariamente – ha segnalato un suo contatto stretto con un soggetto infetto da Coronavirus.
La colpa della signora di Bari era stata quella di decidere di riappropriarsi del proprio tempo e di condurre quel briciolo di vita e di relazione sociali che qualsiasi persona vorrebbe condurre dopo essere stata costretta in casa, per mesi, da misure restrittive della libertà personale imposte per decreto da un Governo che non rappresenta nemmeno la volontà degli elettori.
In pratica, tornando alla signora, un week-end nella propria casa di mare e una cena al ristorante, in compagnia del marito e di una cugina.
Molte cose, però, non tornano, nella quarantena imposta alla signora barese. Anzitutto, nel giorno del presunto contagio, il bollettino della Regione Puglia segnala zero casi di Coronavirus nell’intera provincia di Bari. E non solo: gli allegri compagni di merende della signora, e cioè il marito e la cugina, non avendo scaricato l’App, non possono essere considerati responsabili del contagio (che, come vedremo tra breve, non c’è mai stato). Ma c’è di più: nonostante le insistenti richieste della signora, l’ASL in un primo momento nega alla signora la “prova” del tampone, costringendola di fatto (e di diritto) alla quarantena sulla base delle risultanze della sola App.
A distanza di 48 ore, però, colpo di scena. Dopo che la signora dichiara di volere rivolgersi a strutture private (magari in vista di un possibile contenzioso), l’ASL finalmente autorizza la prova del tampone, che si rivela negativo. Pertanto, si affretta a dichiarare il quotidiano con un nuovo servizio, la signora è “di nuovo libera” e “il caso è chiuso”. Tutto è bene quel che finisce bene?
Neanche per idea. Anzitutto c’è da chiedersi come possa l’App prendere delle topiche così colossali, visto che l’iniziale “contatto stretto con soggetto confermato al Coronavirus” diventa nel giro di pochi giorni “contatto di caso potenzialmente contagioso”. Peraltro, e a onor del vero, ci sarebbe da chiedersi anche a cosa serva un tampone effettuato a distanza di 2-3 giorni dal presunto contagio, visto che il Coronavirus ha tempi di incubazione medi di 10-15 giorni.
Ma ciò che colpisce di più di tutta la vicenda sono i toni cerchiobottisti del quotidiano, tanto diffuso nel Mezzogiorno quanto allineato agli orientamenti governativi, secondo cui “tutti i Paesi più evoluti alle prese con l’emergenza coronavirus utilizzano sistemi di tracciamento simili per individuare i soggetti a rischio contagio”, indorando così la pillola che i cittadini italiani sono costretti a ingoiare in forza di provvedimenti normativi funzionali al consolidamento di poteri e dinamiche tecnocratici. E infatti i riferimenti giornalistici alla società che ha prodotto e diffuso l’App Immuni, lungi dall’essere presentati come accuse di inefficienza, appaiono come forme di pubblicità mirata, visto che il servizio del quotidiano conclude in modo rassicurante che gli operatori della società in questione sono diligentemente al lavoro “per perfezionare il sistema”.
Confermando così, sul piano mediatico, le dichiarazioni del nostro azzimato Presidente del Consiglio, che invita i cittadini a scaricare l’App in quanto “sicura”. Quando invece ci sarebbe da chiedergli: perché, signor Presidente, c’è motivo di sospettare il contrario? Proprio vero: excusatio non petita, accusatio manifesta.
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